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Sentenze

Decorso del triennio articolo 80 comma 10 bis ed effetto escludente

Il Tar Piemonte, pur dando atto di giurisprudenza non uniforme, ritiene che la decorrenza del triennio di cui all’articolo 80 comma 10 bis debba essere computata dal passaggio in giudicato della condanna, con possibile effetto escludente, tuttavia non automatico.Questa la sintesi di Tar Piemonte, Sez. I, 05/08/2022, n. 706:
Con riguardo alla prima doglianza, con cui parte ricorrente contesta la legittimità della ricostruzione operata da…… in punto di individuazione del dies a quo rilevante ai fini del computo del triennio ai sensi dell’art. 80, comma 10-bis, d.lgs n. 50/2016, non può che rilevarsi come, fermo il carattere dirimente che la questione ai fini dello scrutinio della legittimità del provvedimento di esclusione in quanto concernente l’an della possibile valutazione di rilevanza, si pongono, stante la parallela pendenza di due similari contenziosi tra le medesime parti, anche dubbi di possibile litispendenza.
Inoltre sulla specifica questione manca un univoco orientamento del giudice d’appello, né è stata presa esplicita posizione nel provvedimento cautelare del Consiglio di Stato che avrebbe originato la riedizione del potere.
Occorre infatti dare atto delle plurime ricostruzioni interpretative rinvenibili nella giurisprudenza amministrativa in materia, che individuano il decorso del termine triennale di rilevanza rispettivamente dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna (Cfr. Cons Stato, sez. III, 01/06/2021, n. 4201; Cons. Stato, sez. IV, 05/08/2020, n. 4937; Cons. Stato, sez. V, 29/10/2020, n. 6635), dalla pubblicazione della sentenza (T.A.R. Campania, Sez. II, n. 731/2021), o da evenienze corrispondenti a vari possibili atti della magistratura penale diversamente collocabili nella linea temporale del procedimento e del processo penale, quali l’atto di rinvio a giudizio (Cfr. Cons. Stato, sez. III, 02/02/2021, n. 958) e la pronuncia della sentenza non definitiva, o ancora dal momento di commissione del fatto storico oggetto di condanna in linea con l’articolo 57, § 7, della direttiva 2014/24/UE, il quale prevede, in termini generali, che il periodo di esclusione per i motivi di cui al paragrafo 4 (all’interno del quale rientrano sia la causa di esclusione dei gravi illeciti professionali [lett. c)], sia quella delle «false dichiarazioni […] richieste per verificare l’assenza di motivi di esclusione» [lett. h)]) non può essere superiore a «tre anni dalla data del fatto in questione») (Cons. Stato, sez. V, 27/01/2022, n. 575).
In siffatto contesto la stazione appaltante assume, come detto, di essersi rideterminata alla luce della statuizione cautelare resa dal giudice d’appello nella parallela vertenza in seguito all’ordinanza cautelare del Cds n. 883/2022, con la quale tuttavia è stato unicamente chiarito che la contestata causa di esclusione deve ritenersi potenzialmente rilevante in un termine triennale; il provvedimento nulla specifica tanto meno in via definitiva con riferimento al dirimente, e come visto controverso aspetto, del dies a quo di decorrenza di tale termine.
Considerato che la predetta questione appare tutt’ora sub iudice in appello, atteso che il Consiglio di Stato con l’ordinanza cautelare n. 883/2022 ha esclusivamente chiarito che l’ipotesi di falsità dichiarativa soggiace all’ordinario termine triennale di rilevanza di cui alla lett. c) art. 80 d.lgs n. 50/2016, non pronunciandosi sull’individuazione del momento dal quale far decorrere il predetto triennio, e che tale aspetto sarà necessariamente oggetto della decisione di merito già fissata in appello per l’udienza di settembre 2022, il Collegio ritiene più corretto esimersi dallo scrutinio di siffatta doglianza.
Si assume pertanto, in via di mera ipotesi, che, come sostenuto della stazione appaltante, il triennio debba farsi decorrere dal giudicato, unico caso nel quale la condanna oggetto di contestazione sarebbe rilevante per la procedura per cui è causa.
Anche così ragionando, tuttavia, trattasi pur sempre di causa di esclusione discrezionale, come tale soggetta a rigorosi oneri di motivazione, avendo evidenti effetti di limitazione della concorrenza che non possono prodursi con modalità che non potevano essere ragionevolmente prevedibili e/o non vengono puntualmente giustificate nel caso concreto.
Da un punto di vista di mero fatto e di stretto rigore motivazionale osserva il Collegio come la motivazione espressa nel provvedimento esordisca quasi accreditando che la persistente rilevanza della addebitata condanna sia stata “imposta” dalla decisione cautelare del Consiglio di Stato, argomento non condivisibile per le ragioni già esposte.
Anche a darne per assunta la persistente valutabilità, resta come specificato proprio dal giudice di appello, onere della stazione appaltante una seria e complessiva analisi delle circostanze tutte, con convincente enunciazione dalla giustificazione e proporzionalità della misura adottata.
Infatti la fattispecie che qui ci occupa rientra tra le cause di esclusione previste dal comma 5 dell’art. 80 del d.lgs n. 50/2016 alla stregua del quale “le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, […] lett c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”; tale ipotesi escludente, in qualità di norma di chiusura, e costituente una deroga al principio di tassatività delle clausole di esclusione, comporta in capo alla stazione appaltante uno specifico onere primariamente di motivazione e quindi di allegazione e prova in merito alla rilevanza dei fatti posti a fondamento dell’esclusione.
La condotta di reato che ha dato luogo alla condanna ritenuta escludente risale al 2008, quando pacificamente il soggetto interessato operava per altra impresa; la condanna di primo grado risale al 2013 ed è passata in giudicato il 17.12.2018; la domanda di partecipazione qui in discussione è stata presentata il 13.7.2021.
Pertanto sposando la più rigorista delle tesi accreditate in giurisprudenza quanto alla durata della causa di esclusione (decorrenza del triennio dal passaggio in giudicato della condanna), ed avallando una interpretazione del concetto di “fatto” menzionato dalla direttiva esteso alla “condanna” in quanto tale, si ottiene il possibile effetto escludente, tuttavia ancora non automatico.
Sorge quindi la necessità di giustificare la scelta, che non può estrinsecarsi in una petizione “di principio” (quale l’asserito particolare rigore dalla stazione appaltante nel rispetto della disciplina amministrativa tutta e l’ovvia rilevanza che il rispetto delle regole ha in qualunque organizzazione aziendale) e deve essere contestualizzata alla luce della concreta fattispecie.
Nel caso di specie: il fatto risale a circa 13 anni fa; dal punto di vista strettamente penale la condanna è consistita in una sanzione di estrema lievità; è stato applicato il minimo edittale di due mesi e 20 giorni di reclusione, sono state concesse le attenuanti generiche, la sospensione condizionale e la non menzione nel casellario giudiziale, con il che la condanna non era nemmeno percepibile da un soggetto privato terzo rispetto all’interessato; la condanna non ha contemplato alcuna misura cautelare o pena accessoria e non ha dato luogo ad alcuna segnalazione presso il casellario dell’allora AVCP o sospensione della SOA nei confronti dell’operatore economico a beneficio del quale il reato è stato commesso, con il paradosso che ciò che risulta escludente oggi per la …..s.r.l. non pare aver avuto conseguenze sulla possibilità di partecipare alle gare da parte dell’impresa a beneficio della quale il reato è stato commesso.
Ciò premesso, il Collegio ritiene che sussistano profili di difetto di motivazione del provvedimento impugnato.
Invero, dall’iter motivazionale enunciato l’amministrazione non chiarisce, nel pur esteso provvedimento, se l’inaffidabilità del concorrente sia stata desunta da un principio di immedesimazione organica o in applicazione della cosiddetta “teoria del contagio”, per la quale anche reati commessi quando gli interessati rivestivano cariche sociali a beneficio di diversi operatori economici possono venire in rilievo.
Ora secondo parte della giurisprudenza (in tal senso buona parte di quella invocata dalla stessa difesa dall’amministrazione) l’imputazione del reato della persona fisica all’operatore economico è espressione del fisiologico principio di immedesimazione organica, non potendosi d’altro canto configurare reati delle persone giuridiche in quanto tali; tale soluzione non sarebbe tuttavia palesemente applicabile al caso di specie, in cui la condotta è stata posta in essere in nome, per conto e a beneficio di altra persona giuridica e non sarebbe quindi giammai “organicamente imputabile” alla ricorrente.
Diversamente l’amministrazione sembra avere fatto implicita applicazione (senza sul punto tuttavia esplicitare doverosa motivazione) della più estesa “teoria del contagio”, per la quale anche condotte commesse a beneficio di altri operatori economici, qualora sintomatiche di particolare disvalore relativo all’operato del singolo, possono indurre effetti escludenti ed oneri di dissociazione in capo a quell’operatore operatore economico per il quale il soggetto interessato si trova concretamente ad operare al momento del cristallizzarsi della situazione di disvalore.
Rileva il Collegio come buona parte della giurisprudenza che ha sposato questa tesi abbia, in fatto, analizzato, ipotesi in cui la persona fisica era stata investita da vicende di particolare rilevanza penale (condanne, ancorchè non definitive e pronunciate ad una certa distanza di tempo dai fatti, per taluni dei reati per i quali, con il formarsi del giudicato, l’esclusione sarebbe divenuta obbligatoria; collocamento in custodia cautelare o arresti domiciliari; vicende connotate o connotabili da particolare clamor fori).
Ora risulta evidente che nessuno dei casi esemplificativamente sopra indicati ricorre nel presente giudizio; come detto la condanna non solo non ha dato luogo all’esecuzione di alcuna misura di carattere penale coercitiva e/o accessoria ma addirittura è stata caratterizzata da sospensione condizionale e non menzione, sicchè non era nemmeno agevolmente percepibile da parte di un privato estraneo alla vicenda.
Ne consegue che la stazione appaltante ha omesso, nell’esercizio di un rilevante potere discrezionale idoneo ad indurre risultati di limitazione della concorrenza, di esporsi su aspetti nevralgici del ragionamento applicato: l’astratta affermazione per cui la società è giustamente severa in materia di rispetto delle disposizioni amministrative non spiega in alcun modo perché sia stato chiesto alla ricorrente di provare, tra l’altro, di avere risarcito le conseguenze del reato commesso a beneficio di terzi e nell’attività di terzi, o perché sia stato ritenuto che una condanna (che non ha dato di fatto luogo ad alcuna conseguenza penale o amministrativa oggettivamente percepibile da terzi, né a carico dell’interessato né a carico del pregresso operatore economico) avrebbe dovuto indurre l’odierna ricorrente a valutare siffatti impercettibili effetti di disvalore sociale a distanza di 13 anni dalle condotte contestate.

A cura di Roberto Donati – Giurisprudenza e Appalti

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